Leggendo il libro sulla importante esperienza del collettivo Kamina libre la prima cosa che ho pensato ad un certo punto e’ la questione del rito.
In una società in cui la merce ed il profitto dominano i rapporti sociali, dove la funzione collettiva del rito è stata sostituita con un ego individualista negativo e con spettacoli consumistici di ogni sorta, ecco che la rottura generazionale e conflittuale diventa spartiacque, come primo passo verso una resa di coscienza politica, individuale e in certi casi rivoluzionaria.
Cosa c’entra il rito con questa esperienza? Osservando i manifesti del collettivo, nel linguaggio da loro usato è evidente e pregnante la presenza della controcultura punk, e per esempio il ballo del punk, il pogo è una forma espressiva e simbolo potente del rito. Con i suoi salti e capriole sfrenati, le ugole che all’unisono urlano a squarciagola parole di lotta e ribellione, di amore per la vita, e tutto l’odio per chi la opprime. Questa controcultura ha creato anche lei dei rituali che ne mettono in evidenza le peculiarità, le esigenze, e tutta la sua carica sovversiva, potente, caotica. Questi compagni e compagne si sono avvicinati alle idee anarchiche, negli ultimi quarantacinque anni, a partire proprio dall’ascolto di questa musica dissacrante, ruvida, diretta ma “estremamente” antiautoritaria ed anticapitalista?
Mi ricordo di un vecchio video alla fine degli anni ’90, di un concerto dei “Sin Dios” -gruppo punk anarchico spagnolo – proprio in Cile. All’ arrivo della polizia per sgomberare la sala, la folla di giovani si spostò in strada opponendosi all’intervento violento della polizia con un forte approccio negativo contro di essi. Il rito del pogo si è trasformato in una informe e informale rivolta di giovani punx incazzati contro chi voleva sopprimere la loro ritualità, il ritorno all’ordine e alla omologazione sociale veniva violentemente respinto. I corpi fecero da argine. La strada ribolliva di energia, lo si percepisce dai giovani visi delle punx incazzate ed armate di bottiglie e sassi.
Vedo quasi un nesso diretto tra quell’esperienza anticarceraria e la ribellione di una parte della gioventù cilena metropolitana di quell’epoca.
L’esplosione contestuale che si vede nel video contro la polizia è l’esempio strafottente “classico” dei punx irriverenti ad ogni autorità, con annessa tutta la sua simbologia estetica, nel vestiario, nelle creste e nelle spike, nei colori e disegni. Non mi sorprende che questa lotta si sia schierata con quella del popolo Mapuche, la quale nella sua cultura antistatalista ed ancestrale, anche è impregnata di una forte ritualità e simbologia con al centro la questione politica ed esistenziale dell’autonomia e della terra. Così il filo comune tra queste esperienze, la conflittualità permanente, la resistenza come cuore pulsante della comunità.
Trovo un nesso di tutto questo anche con alcune esperienze italiane. Andando a rileggere le biografie di alcuni compagni comunisti come Notarnicola e Abatangelo, in entrambi i casi emerge ad un certo punto la rottura generazionale. Notarnicola ruppe con la federazione giovanile del PCI, mentre Abatangelo nato la generazione dopo, ci racconta del collegio, i furti, i dischi rock, i racconti di avventure, le comunità hippy-beat.
In tutti questi esempi di compagni in galera troviamo questo nesso di condivisione di alcuni riti emersi dalle controculture,l’idea di assaltare la vita verso un futuro tutto da conquistare con la ribellione e la lotta, fa si che l’innesco di un intransigenza comportamentale dentro le mura si incrociasse con la consapevolezza politica, quindi con la necessità di organizzarsi ed avere obbiettivi di lotta, di rivendicazione che andassero ben oltre l’istinto viscerale di rifiuto di obblighi e doveri.
La presenza di questi giovani compagni rinchiusi in sezioni in cui si trovano compagni di altre formazioni ed estrazioni politiche, fece si che gli approcci diversi creassero uno scontro interno tra i detenuti politici, mentre in Italia vent’anni prima la mescolanza tra i giovani compagni di lotta, il mito dei vecchi partigiani e partigiane, ed una fetta consistente di proletariato ribelle e sognatore, creò una miscela esplosiva, determinata da una fiducia di fondo nel vedere lo Stato ed il padronato come nemico ed ostacolo comune, di una progettualità liberatrice. Il collettivo Kamina libre, fa emergere tutta la sua esplosività in un piccolo spazio carcerario staccato dal carcere dei “comuni”, dove però si era creato un certo equilibrio tra i detenuti politici delle formazioni armate precedenti e la direzione del carcere. La prospettiva di uscita dal carcere, sappiamo bene anche qui in Italia che è ancora oggi un modo, uno scoglio storico e politico, dove è facile finire inghiottiti in un buco da cui non si vede uscita. Gli effetti di quella dolorosa stagione si ripercuotono ancora sulla società, sui codici, e purtroppo sulle dinamiche di vita dentro le carceri anche se in modi sottili.
Faccio un esempio strettamente personale di come ragionai in un contesto detentivo come quello dell’AS.
Nel 2019 dopo pochi giorni che fui trasferito da Tolmezzo al AS2 di Ferrara, noi compagni venivamo chiamati tutti e cinque per il prelievo del Dna. Essendo li per pochi giorni non ebbi tempo e il momento per un confronto collettivo su questo tema. Io sono sempre convinto di oppormi a questa pratica umiliante e repressiva, ma in quel momento pensai che fare di testa mia senza essermi confrontato con i miei compagni di sezione, lo avrei trovato irrispettoso anche perché credevo che andasse a ledere la loro situazione con una mia resistenza attiva al prelievo, portandoli in una situazione difficile in cui era stata assente una collettiva discussione. Questo fu il mio approccio, il rispetto per i miei compas veniva prima della mia personale decisione di oppormi, trovavo giusto ponderare le mie azioni che in qualsiasi caso sarebbero ricadute anche su di loro.
In altre situazioni mi sarei sentito di agire in totale autonomia.
Nel libro emerge più volte la differenza tra i compagni che fanno parte di un movimento antiautoritario e chi invece faceva parte di un partito o un gruppo con un organizzazione verticistica.
Nei nostri contesti è quasi impossibile che si diano certe dinamiche, non dico che ne siamo totalmente immuni, ma abbiamo buoni anticorpi. Ecco, la frattura dei Mapu lautaro ne è un vivido esempio di insubordinazione. Allo stesso tempi i detenuti del collettivo riscuotono anche politicamente di un supporto esterno, interagiscono con esso, ci si confrontano e ne chiedono il sostegno, ne tengono conto per le loro decisioni da prendere nell’avanzamento della lotta.
Credo che sia giusto questo approccio, sia per un non dare per scontato l’assenza delle dinamiche in cui si crea una possibile “riverenza” o aspettativa tra dentro e fuori. Sia per non porsi su un piedistallo in quanto “prigionieri politici”.
In più è importante, per chi è dentro comprendere le possibilità e la situazione del movimento esterno, per non forzare situazioni che magari in un dato momento non si riescono a sostenere per motivi soggettivi o oggettivi.
Ovviamente questo non sussiste in momenti spontanei di resistenza e scontro dovuti ad eventi non decisi in anticipo.
Se ci sono occasioni da sfruttare per delle auto liberazioni, per la partenza di qualche lotta in fase di gestazione o situazioni a cui dare una repentina risposta, si fa quel che si deve fare ed è il fuori che deve essere organizzato per farsene carico.
Il contesto carcerario cileno degli anni novanta emerge dalla “caduta “ di una dittatura fascista, e quindi da una situazione sociale dove le minoranze rivoluzionarie erano materia viva in una lotta ed esigenza di liberazione da questa morsa statale. In Italia sappiamo bene come siano andate le cose contro le minoranze ed avanguardie rivoluzionarie, e ribelli di ogni contesto sociale ed in parte anche criminale. In entrambi i casi gli Stati a regime democratico hanno reagito a questa miscela politica carceraria con sanguinosa repressione, con la differenziazione dei regimi di detenzione, con la frammentazione. Questa tendenza consolidata oggi avviene e continua con il Cile che guarda all’ Italia come esempio per il regime tortura del 41 bis. Le parole dei compagni che escono dalle galere e sbarre nei contesti sociali della popolazione sfruttata, fanno ancora paura ed irritazione.
Sanno che la sovversione non è stata ancora estirpata, essa viaggia in modo carsico, nonostante l’apparato di sicurezza si sia evoluto ed ampliato tramite le tecnologie di controllo sociale e la sua cultura dominante e in primis con il revisionismo storico.
Sarà che noi anarchici siamo storicamente abituati a “perdere” e finire all’ angolo, ma l’approccio antagonista del collettivo senza mediazioni, rispetto a quei prigionieri politici marxisti-leninisti che ad un certo punto hanno abbandonato il campo del conflitto, va anche qui in parallelo nella storia politica di questi due paesi. La successiva fase moralizzatrice della società neoliberista riguardo la violenza rivoluzionaria, ne è l’esempio più lampante e costante, manipolando e portando così un contesto sociale culturale, morale, dove ormai è un tabù creare un corteo che utilizzi anche un minimo di autodifesa come pratica o uno sciopero selvaggio. La conflittualità del contesto anarchico cileno, le calde giornate del “giovane combattente”, la presenza- purtroppo oggi scomparsa- di una donna e compagna come Maria Luisa Toledo, che per decenni ha sparso semi di sovversione, la resistenza del popolo Mapuche, e molto altro, tiene tutt’ora la società cilena in un continuo “rinnovamento” sovversivo della vita quotidiana.
Quindi il recupero cultura-repressivo omologante, censorio, mutilante delle idee rivoluzionarie, fa fatica ad attecchire in un contesto dove la povertà economica ne è un ulteriore carburante.
Questo libro può aiutarci non solo nella lotta al carcere, ma porci domande scomode su come noi anarchici ci poniamo nel tessuto sociale delle galere, di come la potenzialità collettiva dentro le carceri non nasce da contesti politici, ma esistenziali, dove i nostri valori morali non sono faro e collante nelle varie stratificazioni della popolazione detenuta.
Quanto è importante lo scambio dentro – fuori come l’esistenza di bollettini e giornali specifici? Che strumenti darci per affrontare il tema delle sostanze dentro le sezioni e nei quartieri proletari? Quindi come trasformare la situazione di indigenza di molti- e opportunismo di alcuni, con una comunità cosciente che alimenta una dinamica di mutuo soccorso e autodifesa?
I nostri schemi ideologici anarchici, se da una parte ci evidenziano per quel che siamo, quali limiti ci pongono in un riuscire ad agire in contesti di vita di cui dovessero essere i nostri referenti e potenziali complici?
Organizzarsi in anticipo tra compas in caso di detenzioni per attivare così in anticipo strumenti di lotta tra dentro e fuori perno fondamentale per una lotta rivoluzionaria? In tal senso come discutere dei nostri limiti?
Per finire dico che anche un altro rito ha una forte importanza in Cile: il vivido ricordo dei compas caduti, sempre presenti.
Saluto questa iniziativa con un pugno al cielo per il compagno Kyriakos Xymitris!
La sua scomparsa sia la nostra forza.
Luca Dolce detto Stecco
carcere di Sanremo
maggio 2025