Pensieri spontanei e dissonanti per un dibattito ancora aperto.
Contributo per la discussione che si terrà il 24 maggio a Pisa sulla solidarietà ad Alfredo Cospito.
Scrivo queste righe, per lo più interrogative e prive di facili risposte, perchè ritengo che un approccio militante, quanto acritico, abbia predominato negli ultimi anni in ogni confronto sulla tematica in questione, evidente già a partire dal linguaggio impiegato nei dialoghi, tanto quanto negli scritti. Per quanto si possa aver vissuto esperienze e contesti differenti, durante quell’arco di tempo che abbraccia lo sciopero della fame di Alfredo, è innegabile la mancanza di un’analisi critica condivisa a posteriori che davvero prenda in considerazione le modalità tramite cui la mobilitazione in sua solidarietà è stata affrontata (almeno in Italia). La maggior parte degli scritti pubblicati se non sono del tutto “derealizzati”, scambiando l’attenzione dell’opinione pubblica, dei media e dello Stato, con una forma di successo che ha messo in crisi l’apparato repressivo, sono in ogni modo mancanti o contraddittori. Questa carenza critica è ragionevolmente dovuta all’urgenza del momento, che ha portato in mancanza di strumenti di pensiero e di progettualità rivoluzionaria, ad affrontare la questione con una logica emergenziale, a riprodurre un fare senza prospettiva, impossibilitato per sua stessa natura a dar luogo ad una trasformazione qualitativa. Oltre a ciò vi è un’ingenuità di fondo nel considerare il modo di operare dello Stato e dei suoi apparati propagandistici che sono riusciti a recuperare il conflitto espresso in quel periodo, senza il bisogno di arretrare in alcunchè sulla situazione di Alfredo che è evidentemente rimasta invariata. Se vi è stato un recupero da parte dello Stato, da una parte del suo apparato burocratico, da umanisti democratici, politicanti di movimento esterni o parte del movimento anarchico (vedi coloro che per non compromettere la loro politica del consenso popolare sono stati disposti a gettare acqua su ogni fiammella di conflitto), non sarebbe onesto da parte di nessuno eludere la questione di come ciò sia stato possibile, alienando questa dinamica come totalmente esterna al proprio agire e alle proprie idee. Se ciò è stato possibile è anche perchè non si è fatto abbastanza per evitarlo e se non si riflette e non si affinano gli strumenti critici necessari, ci si troverà sempre nella stessa condizione disarmante ed esauriente.
Partiamo dal principio: come riporta la citazione di Alfredo Bonanno riportata nel testo introduttivo dell’iniziativa “Il carcere è l’espressione più brutale e immediata del potere e come il potere va distrutto, non può essere progressivamente abolito. Chi pensa di poterlo migliorare per poi distruggerlo ne rimane prigioniero per sempre.” è possibile e, se la risposta è affermativa, come, conciliare questa prospettiva chiaramente anarchica e irrecuperabile, con il sostegno ad un compagno prigioniero che rivendica l’abolizione di uno specifico regime carcerario? Questa riflessione ritengo sia un punto di partenza inevitabile per qualunque anarchico che si trovi a sostenere una lotta rivendicativa. Come fare a sostenere da fuori il percorso intrapreso dai prigionieri senza scivolare in logiche riformistiche e facilmente assimilabili dal dominio? Nel caso di Alfredo penso che in molti abbiano con le loro proposte facilitato il recupero di una lotta che già in partenza poteva mostrare delle criticità se non affrontata coscientemente. Una mobilitazione che ponga il proprio obiettivo dichiarato nel declassamento di Alfredo dal 41 bis, per certi versi limita non solo la sua estensione all’interno del mondo carcerario, concentrandosi solamente sulla condizione specifica di un anarchico prigioniero, ma pure la possibilità che la lotta raggiungi il suo potenziale massimo di liberazione, ponendola per di più su un piano facilmente strumentalizzabile da chi approfitta della situazione di Alfredo per denunciare un’ingiustizia giudiziaria, una persecuzione politica spropositata, o la disumanità di un regime carcerario; deviando l’attenzione della lotta dal pensiero e agire anarchico di Alfredo, dall’abominio dello Stato e della reclusione, verso la necessità di sanare delle ingiustizie troppo evidenti negli apparati stessi del dominio, mantenendo invariato il tutto. Da quando si dichiara pretendere una migliore detenzione per un compagno e non la sua libertà? Se si pensa sia solo questione di parole o slogan ci si sbaglia e non accadrebbe se le parole stesse non avessero smarrito ormai troppo spesso il loro significato e relazione con la realtà, parole come solidarietà e progettualità rivoluzionaria. Uno slogan ripetuto meccanicamente in ogni manifestazione come “fuori Alfredo dal 41 bis”, non solo pone ogni azione compiuta sotto questo cappello in una prospettiva limitata e limitante, come se si scegliesse di rinunciare in partenza ad un proposito più desiderabile e incompatibile con il potere, ma contiene in sè il possibile germe del riformismo.
Ciò che sostengo implica che bisognerebbe evitare di porsi degli obiettivi specifici e parziali, o di sostenere chi li rivendica? Assolutamente no, sono le modalità tramite cui si raggiungono questi obiettivi a fare la differenza, ovvero voglio dire che tali obiettivi andrebbero raggiunti in conseguenza del conflitto che si è in grado di dar luogo, obbligando lo Stato a concedere ciò che si vuole ottenere, senza che ciò implichi alcun tipo di dialogo con esso. Le esperienze del Kolektivo Kamina Libre, così come quelle dei compagni che raccontano le loro evasioni nel libro Adiòs Prisiòn dimostrano come la libertà possa essere strappata allo Stato con una lotta che si estenda nelle carceri e al loro esterno, o tramite la riappropriazione individuale o in gruppo della propria vita tramite la fuga. L’unico vero obiettivo era la libertà per poter tornare a vivere e a lottare.
Ciò che trovo molto spiacevole è l’impressione che per molti sia esistito ed esista solo l’approccio criticato finora, che tutto ciò che è avvenuto in solidarietà alla lotta di Alfredo segua questa logica volutamente parziale. Purtroppo il silenzio diffuso e la mancanza di una prospettiva differente, elaborata chiaramente e condivisa, rende effettivamente facile cadere in questo equivoco. Uno sguardo non solo carente, ma scorretto, pretende unificare motivazioni, differenze di prospettiva e metodo, in nome di un’esigenza militante che, per alcuni ha preso la forma di uno spregevole gioco politico automistificante e celebrativo. No, ci sono compagni che ritengono offensivo e indignitoso essere associati ad una tale campagna politica, compagni che hanno diverse motivazioni e modi di esprimere solidarietà ad Alfredo, che hanno preferito o purtroppo accettato il silenzio relativo o totale, piuttosto che adeguarsi alla retorica egemonica e confusa, tanto più allargata quanto meno sovversiva.
Penso sia il portato di tutte quelle azioni sparse, incessanti e destabilizzanti, che sono avvenute in quel periodo, ad aver trasmesso forza e passione, nonostante la tragicità del momento, a quest’agitazione. Azioni che, se anche nel più malaugurato caso, fossero sprezzantemente considerate da qualcuno come il canto del cigno, certamente non hanno nulla di paragonabile in bellezza alle tante apparizioni militanti, quando non umilianti e vittimiste, prettamente simboliche, che hanno distinto gran parte della mobilitazione. Una riflessione a partire dall’agire mi è sembrata particolarmente assente nel dibattito sulla solidarietà, che non solo affermi la necessità dell’azione, ma rifletta sulle circostanze che ne rendano possibile la diffusione, sugli obiettivi e sul portato che un certo tipo di azioni comporta piuttosto che altre (bruciare una macchina, per quanto è positivo perchè richiede una messa in gioco della persona e permette un approfondimento nelle relazioni, è ben diverso da interrompere o distruggere una fabbrica che ne produce i componenti per migliaia di vetture ogni giorno, per fare un esempio). Spesso ho l’impressione che si dia visibilità solo a ciò che è facilmente etichettabile da uno sguardo militante, perdendo di vista il senso e il potenziale di un agire rivoluzionario, dando importanza solo all’apparenza e alla spendibilità propagandistica di ciò che accade, non sviluppando uno sguardo progettuale rispetto al proprio agire come anarchici in un mondo che ha un suo funzionamento e quindi i suoi punti deboli.
Ripartire dalle circostanze e dal potenziale che hanno reso effettivamente possibile l’emergere di un agire qualitativo e quantitativo, riconoscendone i limiti dati dall’aspetto contingenziale e teoricamente carente, per poterli oltrepassare, realizzando effettivamente la prospettiva di un conflitto permanente e progettuale contro lo Stato, ritengo sia il compito necessario che ogni anarchico dovrebbe portare a termine affinchè la vita riaffiori tra le tetre monoculture del fare monotono e fine a se stesso. Mi auguro che queste mie considerazioni, per quanto frettolose e volutamente polemiche, possano effettivamente essere da stimolo per la discussione che avverrà.
“Ogni società […] avrà i suoi margini, e ai margini di ogni società, vagabondi eroici e irrequieti andranno in giro, con i loro pensieri selvaggi e incontaminati, capaci solo di vivere preparando sempre nuovi e terribili scoppi di ribellione! Io sarò tra loro!” Renzo Novatore
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